C’è l’uomo con le sue ferite e le sue paure, la sua autoironia e quello scetticismo un po’ cinico, un po’ bastian contrario, originale sempre, sciropposo mai. Ci sono le confessioni delle sue debolezze, gli attacchi periodici di depressione “ereditati” dalla madre, in grado di distruggerlo; il rapporto tormentato con la fede, sempre cercata e forse mai trovata, ma rispettata; e ancora, l’infanzia a Fucecchio, il successo, l’amore per la moglie Colette, “così grande che possiamo camparci di rendita”. E poi c’è lui, principe del giornalismo, voce fuori dal coro, con la sua vocazione alla sincerità, contro ogni ipocrisia, lontano dalle camarille della Cultura, solo, ma venerato da un esercito di milioni di lettori.
Ci sono le sue cronache durante la seconda guerra mondiale: Cracovia, dove testimone di un pogrom maturò il suo disprezzo per la piazza, in cui “vengono consacrati i fanatismi più orrendi, fra cui il più orrendo di tutti: il razzismo”; Varsavia e la Finlandia, e nel ‘56 da Budapest nella rivolta che fu la prima, vera incrinatura del comunismo nell’est-Europa, soffocata nel sangue, e raccontata sul Corriere della Sera con pagine da brividi; ci sono i suoi ritratti unici, irraggiungibili, dei protagonisti della storia italiana ed europea: Churchill, De Gasperi, De Gaulle, di cui divenne amico, ma anche Henry Ford, Dalì, i suoi sodali Flaiano, Longanesi, Mario Soldati e molti altri. Non manca il Montanelli cinefilo incantato da Anna Magnani, Sophia Loren e Ingrid Bergman, Rossellini e Fellini, contro la censura democristiana e allergico a ogni bigottismo. Infine, lo storico divulgatore antiaccademico e il narratore politico sferzante.
Tutto questo in un libro potente e imprescindibile, il cui titolo, ripreso da un suo aneddoto, è un emblema: Se non mi capite l’imbecille sono io. È uscito a luglio 2022, edito da Rizzoli, e raccoglie in 308 pagine più di un centinaio di frammenti di articoli, diari, libri e interviste di quello spilungone toscano che seppe più di ogni altro tratteggiare, con la penna, vizi e virtù degli italiani in un affresco di parole che non passano. Pezzi perfetti di poesia giornalistica, che è poi la poesia di ogni giorno, impressa con l’inchiostro sui giornali di carta, oggetti meravigliosi ormai in via di estinzione.
È buffo pensare che un giornalista tra i più seguiti a destra nel dopoguerra, come lui, abbia tanto contribuito a irridere l’eccessiva retorica del Dio, Patria e Famiglia. L’insofferenza al clericalismo e la battaglia per il “sacrosanto diritto dell’uomo a scegliere il quando e il come della propria morte” possono sorprendere. Incarnava una destra soffusa d’anarchia – tipica del carattere italiano – anarchica-conservatrice, scettica e libertaria, italianissima, ma con un forte senso dello Stato, e persino dell’ordine, anche perché, come diceva il suo maestro e amico Leo Longanesi: “In Italia l’unica cosa che funziona è il disordine”. Frondista a vita, ostile verso ogni potere imperante, fu sempre fedele alla morale dello “stare, quando si accendono i roghi, dalla parte delle streghe”. Veemente nel combattere la vigliaccheria degli intellettuali, costante nella storia, se è vero che “quando Giordano Bruno venne spedito al rogo” nella cultura italiana “non un dito si mosse, non una voce si levò”. Così capitò a lui dopo l’attentato brigatista.
Ma quella capacità di rendere il giornalismo poesia quotidiana, e anche pittura, con immagini che sembrano tutte animarsi e prendere vita propria a partire dalla pagina, dovrebbe indurci a cogliere l’unicità di un genio che invece, nel racconto di chi vorrebbe uniformare ogni coscienza, è solo un maledetto su cui scaraventare sentenze di condanna: stupratore e colonialista, per quella vicenda in Etiopia ai nostri occhi certamente intollerabile, orrenda, di cui tanto si è parlato, ma presa a pretesto con moralismo pedestre al solo scopo di distruggere un mito scomodo.
Non può non farci male, devastarci e scuoterci, la mediocrità giudicante assurta a canone, collettivamente somministrata, secondo la quale la vita di un uomo può essere dannata e trasfigurata sulla base di un singolo episodio. La campagna d’odio condotta dopo l’imbrattamento della statua nel parco a lui dedicato, a Milano, ha fatto sì che per tanti giovani e non solo, magari in buona fede, imbevuti di ideali falsamente umanitari, il nome di uno come Montanelli sia oggi ricordato soltanto per quella misera polemica. Non sono bastate a placarla neppure le giuste condanne del sindaco di Milano, Beppe Sala, del Presidente Mattarella, e di tanti altri politici e intellettuali di sinistra che per onestà intellettuale si sono opposti alla crocifissione.
La violenza scatenata è però quanto di più bestiale si possa infliggere alla storia, alla verità e alla grandezza. Peggio dell’analfabetismo, solo la supponenza, verrebbe da dire. E l’infamia della vernice gettata, non tanto sul monumento, ma sulla vita grandiosa di un uomo straordinario – lo ricordò meritoriamente Enrico Mentana – è ancor più riprovevole se si pensa che, tra quegli stessi giovani e non, in buona fede caduti nel tranello, non ce n’è uno informato del fatto che a Montanelli è dedicato quel parco perché in quel luogo, il 2 giugno 1977, le Brigate Rosse gli riservarono quattro pallottole di rivoltella nelle gambe, a ricordare il prezzo della libertà per un giornalismo senza padroni, cui non riuscirono a chiudere la bocca neppure con il fuoco.
Il giudizio moralistico sul passato convince chi lo ripete di avere una buona coscienza e prevale su tutto; serve al potere per radicarsi sempre di più, soffocando lo spirito critico. Lascia sconsolati e inermi l’automatismo che induce a non distinguere, contestualizzare, approfondire, comprendere.
E allora no, caro Indro, proprio no: se non ti capiamo, gli imbecilli siamo noi.