“Crime terror nexus” è il modello analitico usato per comprendere la relazione tra criminalità
organizzata e terrorismo nei paesi in via di sviluppo. Eppure, nonostante tutte le prove che abbiamo, poca ricerca accademica ha cercato di capire come il nesso opera dall’interno delle democrazie occidentali e, quando lo fa, l’approccio è disomogeneo.
Quello che manca a livello europeo è una strategia coerente a quella usata nel contrasto alle mafie. Rifacendoci agli studi condotti da due noti professori del King’s College di Londra, Rasjan Basra e Peter Neumann, autori del report “Criminal Past, Terrorist Future: European Jihadists and the new crime-terror nexus” possiamo trarre due conclusioni: le nuove reclute dei gruppi terroristici hanno tutte un passato criminale e proprio le carceri sono i luoghi fisici dove possono crearsi e solidificarsi le connessioni tra terroristi e criminali.
Di certo, il ruolo degli istituti di pena come acceleratori della radicalizzazione è noto alle autorità italiane, basti ricordare il caso di Anis Amri, l’attentatore tunisino autore della strage al mercato di Natale di Berlino del 2016. L’uomo era stato introdotto al fondamentalismo proprio durante la detenzione nelle carceri italiane, e lì sarebbe nata la sua rete di affiliati che, una volta usciti, dal Centro islamico di Latina avrebbero pianificato l’attentato alla metro B di Roma.
Del resto, i numeri segnalano una tendenza alla sovrarappresentazione statistica delle persone di religione musulmana negli istituti di pena che, proprio per questo, sono oggetto di un attento lavoro d’indagine e controllo, onde evitare che si crei un terreno fertile per la nascita di sodalizi criminali tra gruppi terroristici e affiliati dei clan. I punti di contatto tra crimine organizzato e terrorismo di matrice islamica non mancano, e diverse sono le attività che risultano redditizie per entrambi, pensiamo, per esempio, alla cosiddetta “oil connection”: nel 2017 le indagini condotte dalla Procura di Catania portano a
scoprire una struttura criminale composta da cittadini italiani e stranieri impegnati nel contrabbando del petrolio trafugato dalla Libia, a collaborare con i membri del clan Santa Paola Ercolano di Cosa Nostra erano proprio i vertici della milizia armata libica.
Narcotraffico, riciclaggio di denaro, associazioni a delinquere finalizzate al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: per decenni i gruppi criminali hanno gestito la tratta degli esseri umani, e le organizzazioni terroristiche non hanno esitato ad entrare a pieno titolo in un business tanto redditizio. È il caso dello Stato Islamico in Siria, di Daesh in Libia, di Boko Haram in Nigeria: un vero e proprio sistema strutturato che pone le basi per una stretta connessione tra i gruppi jihadisti e lo sfruttamento della prostituzione perché, a quanto pare, i membri delle gang nigeriane pagano la Camorra e le altre organizzazioni che operano sui territori, per poter condurre i proprio affari in tranquillità.
I casi che confermano questa connivenza criminale sono moltissimi e proprio l’Italia, con la sua legislazione antimafia, rappresenta un esempio virtuoso per il coordinamento delle attività di contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo. Poche settimane fa, la premier Giorgia Meloni, parlando ai leader riuniti in video collegamento per il Consiglio Ue, ha lanciato un appello chiaro: “non cadiamo nella trappola di Hamas”, perché è proprio il terrorismo a infestare le complesse crisi che stanno travolgendo il nostro presente e in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso.
Solo quando la comprensione del nesso crimine-terrorismo verrà messa al centro del dibattito
internazionale la lotta potrà tradursi in risultati concreti ed estesi.